1945. Notte fonda. Roma è stata violata dalla guerra: è stanca e silenziosa. I grandi palazzi del centro sono chiusi. Qualcuno bussa a un portone di via Basento, ma nessuno apre. La paura è ancora un’abitudine. Una delle due sorelle zitelle del secondo piano si mette il cappotto sopra la vestaglia, sopra la camicia da notte e scende di sotto. Aspetta un cugino di ritorno dalla guerra e va a vedere se è lui. Fa girare il chiavistello e il rumore rimbomba nell’androne delle scale, fino su al quinto piano salendo per la tromba buia. Apre il portone e si trova davanti un’ombra scura con il pastrano militare e gli scarponi. Non lo riconosce, non è lui. Richiude di botto, spingendo la grossa anta pesante. L’ombra bussa di nuovo con più forza e una voce dice “Apritemi!” ma la donna se ne guarda bene e sta per andarsene quando quello urla “Sono il figlio di Fran****!” La donna trasalisce e torna indietro: i Fran**** quelli del quinto piano! Apre e lo riconosce: è sporco, certamente pieno di pidocchi, smagrito e lacerato nell’anima, ma è lui. Lo lascia entrare e scappa su per le scale, le sale di corsa, col cuore in gola, urlando: “Signor Silvio, Signor Silvio è tornato vostro figlio!” La gente si affaccia sui pianerottoli con gli occhi assonnati e commossi. A ognuno sembra che sia tornato qualcuno della propria famiglia. Si partecipa sperando nel prossimo ritorno, non ci s’inquieta per il disturbo notturno. Nessuno dormirà più a casa del signor Silvio per quella notte, perfino la bambina, mia madre, siede al grande tavolo della cucina ad ascoltare le parole di quello zio che è tornato dall’Africa e dalla prigionia di guerra, pieno di sporcizia e di racconti.
