Pubblicato in: Avvertenze ed effetti collaterali

Il cuore è un tubetto di dentifricio

Scusa

Scusa

Scusa

Ho parlato,

Ma dovevo stare zitta.

È che non ci riesco

Mi si mettono in coda le parole in gola.

Premono

Urtano

Spintonano

Più stan lì e più fremono

e poi escono dissociate,

Sbraitate,

Incoerenti,

Scordate

Non si legano perché hanno aspettato troppo.

E sono così agitate che scodellano frasi illogiche.

Ammucchiate a caso

Buffe

“Ma che stai dicendo?”

Mannaggia a loro

Mannaggia a me

Mannaggia a noi

che siamo tubetto di dentifricio strizzato di colpo

e pasta al gusto di menta che esplode fuori.

Che poi le parole sono come il dentifricio.

Uno schizzo di dentifricio non si toglie facilmente dalla maglietta.

Spazzoli, sciacqui, sputi e resta appiccicato uno schizzo bianco sul petto, in alto a sinistra.

E quel giorno hai la maglia nera.

Che fai, ti cambi?

Non c’hai tempo, poi sta bene con i pantaloni e pure con le scarpe.

Quella volevi metterti, ma per tutto il giorno lo schizzo lo vedrai,

magari solo tu,

lo vedrai

ossessivamente

sicuramente

tu.

E immagina tanti schizzi a macchiare l’aria o la faccia di chi mi sta davanti quando le parole esplodono fuori.

Che non sono saliva, quella fa schifo ma si asciuga e non resta.

Le parole restano appiccicate

e sono uscite da me,

ne sono responsabile.

Anche se l’incoerenza delle parole assomiglia allo sfogo,

io mi capisco

e pure mi vergogno un po’.

E nel pieno della ragione sono riuscita a non dire niente,

a darmi torto.

Ma siamo fatti di cuore.

E se lo strizzi escono parole vere,

al sapore di menta anche se non mentono,

e non hanno senso se sono dovute uscire.

Il cuore non parla

Lo devi capire da fuori.

Se lo faccio parlare,

Non lo hai capito

E le parole non lo possono spiegare.

Il cuore è un tubetto di dentifricio.

Non te lo dimenticare.

Scusa ancora

Scusa ancora

Scusa ancora ops!

Mi sono rotta un’unghia mentre stringevo forte il tappo del tubetto di dentifricio.

Ho parlato,

Ma dovevo stare zitta.

Strizzare il cuore per unə come te non vale mai la pena.

E io non me lo devo dimenticare.

*Scritta da Giuliana Facchini – diritti riservati

Pubblicato in: Avvertenze ed effetti collaterali

Ma è davvero un lavoro?

Io nella mia vita non ho mai avuto bisogno di soldi fino a cinquant’anni. Non mi sono proprio mai posta il problema di spendere o non spendere. Sono andata via da Roma e poi dall’Italia e poi sono arrivati i figli e ho semplicemente fatto. La madre, la moglie, la figlia e tutti i mestieri di mezzo. Appena avevo un buco leggevo o scrivevo. A cinquant’anni mi sono ritrovata sola in una città che non era la mia, con due figli, una madre anziana, il conto in banca a zero, sette romanzi pubblicati e socia Icwa.

Incomprensibilmente non avevo mai trovato il tempo per pensare a una mia reale indipendenza economica, assorbita com’ero dalle mie infantili certezze di felicità. Vai a fare la commessa, mi è stato detto. Io un lavoro ce l’ho, ho risposto. Oggi quel lavoro, la scrittrice di romanzi per ragazzi e ragazze, mi aiuta a sopravvivere, ma mi fa arrabbiare, anzi incazzare, il fatto che non sia riconosciuto come lavoro (come tutti i mestieri creativi). Perché da questo fatto partono i guai per chi di scrittura vuole vivere.

Gli autori fiamminghi hanno un sostegno statale per preservare la qualità del loro lavoro, i francesi le royalty per i prestiti bibliotecari dei loro romanzi, molti Paesi traducono per l’estero per esportare la propria cultura. Ma questo lo sappiamo già. E noi? Quanti provano a vivere di scrittura? Le librerie indipendenti chiudono. I pochi lettori sono contesi. Le scuole sono un bacino unico appetibilissimo e subissato di proposte.

Però scrivere resta il sogno di tanti. Perché è così affascinante essere letti? I corsi di scrittura creativa si moltiplicano e quindi la richiesta di una professionalità in questo campo esiste. Ma leggere, non leggono in tanti. Colui o colei che va in libreria o in biblioteca per trovare qualcosa da leggere non è quantizzabile in Italia. O meglio, forse, non è giustificata la mole di libri che esce per quanti leggono.

Un mondo editoriale che continua a sfornare libri ma non forma lettori è destinato al collasso. E collasso è già, se un grande marchio editoriale ricorre al romanzetto sgrammaticato per far cassa. E l’asticella di quello che fa bene ai lettori, e li conserva nel tempo, si abbassa.

Per fare un lettore ci vuole un buon romanzo e una politica di educazione alla lettura promossa a livello istituzionale.

Sento parlare di letteratura che deve coinvolgere il lettore, trascinarlo altrove, e denigrare ogni tentativo commerciale o parascolastico. Ma che senso ha? Prima di sdegnarsi bisogna avere un quadro chiaro di cosa sia il mondo del lavoro in Italia e il lavoro creativo vive della clandestinità e della professionalità castrata al pari di chi finisce per raccogliere pomodori. Lo so, appare irrispettoso scriverlo, mi scuso, ma è una frase che deve fare male.

Per come la vedo io l’unica speranza sono i circoli letterari e i gdl, una lucina in fondo al tunnel. Quelli che leggono per scelta, l’unico bacino che conta, che dobbiamo alimentare, da cui partire.

Per carità ci sarebbero le scuole, ma lì la lettura è arma a doppio taglio, si può far molto bene e si può far male. Dipende dalle competenze e dall’impegno. Dipende da come e quanto ci si crede.

Come molte di quelle che fanno il mio mestiere ricevo inviti per incontri e presentazioni. Negli ultimi mesi ho ricevuto in particolare tre mail di professori che mi chiedevano di andare nelle loro scuole. Entusiasti dei miei romanzi.  Non un accenno alle spese di viaggio. Io rispondo sempre che se l’acquisto delle copie è importante si rivolgano alla mia casa editrice o a una libreria che organizzano loro, diversamente chiedo un compenso (ovviamente vado gratuitamente dove opportuno, non sono una snob, indosso scarpe basse e faccio passi ben distesi). Avendo una partita Iva posso emettere fattura elettronica e lavorare con le scuole. Ho più del 30% di oneri e le spese di viaggio, quello che mi resta è il giusto per progettualità, impegno e fatica per un incontro ben strutturato con studenti e studentesse (il famoso esperto esterno). Il 20% della ritenuta d’acconto usato per la prestazione occasionale, che ridurrebbe i costi, non è applicabile perché ha un tetto massimo e per alcuni progetti bisogna emettere per obbligo fattura elettronica.

 Da nessuna di quelle tre particolari mail ho avuto replica, neanche un no grazie. Dall’entusiasmo a un silenzio maleducato e si può immaginare scandalizzato.

Noi le facciamo il favore di acquistare una copia e di leggere!

È ignoranza, non è cattiveria, nel senso che non sanno cosa sia il mondo editoriale. Come per chi varca la scoglia di un supermercato e non immagina chi lo abbia costruito e come. Ed entrerebbero in campo le regole e le leggi.

È, invece, tutto scandalosamente al ribasso.

In quelle scuole andrà chi non ha chiesto compenso e per venti copie vendute (forse) e quindi 20 euro di diritti (forse). Chi è costui o costei? È ricco di famiglia o ha un altro lavoro (non accenno neanche al sottobosco di improvvisatori). Quindi cosa privilegiamo? Non certo una professione che deve essere riconosciuta come tale. Non che chi faccia un altro lavoro con cui campa non sia un bravo scrittore o scrittrice, ci mancherebbe e ce ne sono di bravissimi e bravissime.

Ma potersi dedicare totalmente alla scrittura ha dei vantaggi come il tempo, le energie, la concentrazione e ovviamente dignità da offrire alla professione. Dovrebbe essere un diritto per tutti poter fare il proprio mestiere, soprattutto se lo si sa fare bene.

Ma cosa significa esattamente vivere di scrittura? E come si possono cambiare le cose per avvicinarci agli standard europei? Alla prossima.