C’era una volta un gatto mezzo bianco e mezzo rosso, gli fu messo nome Dalì perché scivolava giù dalle poltrone e dalle sedie come i celeberrimi orologi del famoso pittore Salvador. Arrivò malaticcio e fu curato, rimediò malanni vari e tonò sano e infine si prese un morso che diventò un ascesso lasciandogli sulla spalla un buco grande come una moneta da due euro. Fu ricucito e fece convalescenza per venti giorni in una casa grande con un bel balcone fiorito, coccolato da una nonna, con ciotole piene di crocchette della miglior qualità e l’aggiunta di pasti freschi e sfiziosi, ma la tristezza velava i suoi occhi. Finalmente venne il giorno che poté nuovamente uscire in giardino, andare a trovare le famiglie di cui era amico, salire sugli alberi e cacciare per portare generosi doni ai suoi tanti umani.
Sono affezionata a quel gatto indipendente dalla salute cagionevole. E’ bello vederlo con il pelo bianco lucido e le macchie rosso ramato che catturano i raggi del sole. Sarebbe un gatto da tenere in casa, al sicuro, pulito e protetto. Eppure la sua tristezza casalinga la dice lunga: meglio libero, sporco, graffiato e forse da curare di nuovo ma felice. Lui fa fusa gorgoglianti, miagolii graziosi e adora dormire in braccio ai suoi umani, ma è nato randagio e non vuole rinunciare alla terra, alle cortecce degli alberi per farsi le unghie, all’aria umida del primo mattino che gli fa gonfiare il pelo.
Chi ama i gatti sa che per loro ci vogliono intenzioni superiori, bisogna saper voler bene senza possedere, non sempre ne siamo capaci, possiamo a imparare.