Decido di fare la carbonara vegetariana, non sto a spiegarvela perché ci vogliono stomaci forti e non vorrei creare imbarazzo. Rompo le uova e separo la chiara dal tuorlo, metto il rosso d’uovo nei piatti e il resto nell’imballo di cartone vuoto delle uova. Quindi trasporto il tutto verso il lavello per gettare le chiare, ma il cartone perde e lascia una bava appiccicosa sul tavolo. Me ne accorgo e con acrobazia funambola, in quel tratto che mi separa dal lavello, intercetto con il piede una corposa gocciola appiccicosa: il pavimento è salvo, mentre il cartone, prossimo al cedimento, approda sul lavandino. La chiara però s’è insinuata tra il piede e l’infradito di gomma e la pianta si appiccica e si spiccica a ogni passo. L’acqua bolle, la pasta cuoce. Esco in giardino e prendo la canna per l’irrigazione. Ci sono almeno 40 gradi data l’ora di pranzo. Apro l’acqua e ustiono il piede che intendevo ripulire, mi mordo la lingua per non sconvolgere la digestione dei vicini (noi pranziamo tardi), saltello, lascio scorrere l’acqua e appena diventa fresca, risciacquo. Sollievo. La pasta scuoce. Rientro zoppicante e con le dita del piede arrossate: Bryce, il border, è seduto davanti alla portafinestra della cucina e mi guarda; Indiana, il gatto, è sdraiato sotto il tavolo e mi guarda; i figli per fortuna non sono presenti. Nessuno chieda com’è venuta la pasta alla carbonara.
